LA CULTURA DELLA CONVIVENZA

Un libro che, come lo ha definito Nicoletta Fasano - direttrice dell’ Israt che ha dialogato con l’autore - è cultura, scuola, viaggio, famiglia ma anche bei pensieri carichi di speranza. “La cultura della convivenza. Di cosa parliamo quando parliamo di politica” (Bollati Boringhieri) di Gabriele Segre è stato presentato mercoledì 19 marzo 2025 durante la videoconferenza organizzata da Polo cittattiva Astigiano Albese – I.C S. Damiano, Museo Arti e Mestieri di un Tempo e Comune di Cisterna d’Asti, Israt, Gruppo di Studi Ebraici, Associazione "Franco Casetta", Libreria “Il Pellicano” e Aimc Asti. 

Gabriele Segre è direttore della Fondazione Vittorio Dan Segre, è esperto di temi di identità e convivenza. Specializzato in Politiche pubbliche e Leadership, ha studiato all’Università di Singapore, alla Columbia University di New York e all’Università Cattolica di Milano. Ha lavorato per anni per le Nazioni Unite occupandosi di temi di leadership e riforma dell’organizzazione. Collabora con diverse testate, tra cui La Stampa, Il Sole 24 Ore e tiene una rubrica settimanale su Domani.  Nicoletta Fasano è storica, ricercatrice, direttrice dell’Istituto per la Storia della Resistenza e della Società Contemporanea in Provincia di Asti.

Mentre fuori dalle finestre della sua casa di Gerusalemme, infuriava la protesta contro il governo, Gabriele Segre ha condiviso un’idea che può sembrare debole oggi ma che, al contrario, è fortissima: POSSIAMO!

“Questo libro è una convocazione al pensiero collettivo e non vuole portare nessuna verità ma, semmai, una domanda che è centrale: come si può stare insieme senza rinunciare alle nostre identità? Non c’è un’unica risposta. Oggi abbiamo visto le differenze della società italiana anche su pezzi di memoria comune, le fatiche che viviamo anche sui fondamentali... ma è proprio questo che rende la domanda della convivenza centrale. il viaggio è certamente presente ma è soprattutto un viaggio interiore: chiederci chi siamo e chi sono gli altri è un pezzo importante di questo percorso” ha detto Segre.

Una componente di partenza per la convivenza è sicuramente la politica ma, oltre a questo, non basta solo il riconoscimento dell’identità o di somiglianza con la nostra che porterebbe alla familiarità ma non porta alla creazione di una comunità o alla convivenza perchè per approdare a tutto ciò occorre un progetto comune. Per dargli voce, però, occorre la politica che è lo strumento che definisce e genera l’intenzione di un progetto che è la comunità che è diversa dalla community. “Oggi - ha proseguito - frequentiamo anche ambienti virtuali molto di più di quelli reali che sono utili ma non formano una comunità di convivenza reale perché costituiscono un'emergenza che uno spazio virtuale non costruisce”.

Ma, per costruire la cultura della convivenza - come ha sottolineato Nicoletta Fasano, un ruolo importante ce l’ha anche la storia. Infatti, secondo Segre, ha un ruolo centrale per  la definizione di uno spazio di convivenza anche se, da sola, la memoria storica non può costruire una comunità perché c’è anche bisogno di altro per tessere una progettualità.

Nel libro si parla di cultura iperindividualista responsabile di aver messo ognuno di noi all’interno di una bolla dove stare al sicuro per rafforzare ciò in cui già siamo convinti fino ad arrivare al liberalismo.

Quest’ultimo, secondo Segre, ha avuto il grande merito di togliere le catene che legavano lo sguardo del mondo rispetto alle grandi ideologie. La contraddizione è che noi abbiamo cominciato a vedere il liberalismo come il fine, come progetto esso stesso quando dovrebbe essere strumentale alla costruzione di un senso del mondo di cui l’uomo ha bisogno… ma non l’unico. L'uomo utilizza la libertà per dare un senso alla propria vita ma abbiamo perso la coscienza di cosa c’è dopo la libertà e questo dato un enorme smarrimento di senso, almeno per ora. Allora la cultura della convivenza è un’utopia ma non è fantasia. 

“Non è un salto quantico. Non è un’ idea che non ha relazione con il presente ma è sempre collegata con esso. L’utopia è proprio questo: uno sforzo costante, un traguardo raggiungibile, un legame con il mondo. Noi conviviamo costantemente. Lo sforzo è tentare di ampliare questo culturale  che ci permette di stare con l'altro. Però, nel tentativo di affrontarlo, dobbiamo sapere che, dopo, c'è sempre un aspetto rivoluzionario per farlo. Tutto ciò non dobbiamo cercarlo lontano da noi. Ovviamente, ogni giorno, è uno sforzo immane ma dobbiamo anche contare nel successo che abbiamo quotidianamente. Però vorrei aggiungere una riflessione sull'idea che avevamo di aver raggiunto traguardi e ritenerli scontati. Infatti avevamo delle idee che ci permettevano di immaginare che la convivenza fosse raggiunta e acquisita come ritenevamo per il diritto internazionale ma anche al riconoscimento della società rispetto alla scienza. Oggi scopriamo, in maniera tragica, che tutte questi traguardi non sono stati acquisiti per sempre ed è per questo che lo sforzo deve essere costante e quotidiano. Rispetto a tutto ciò che ho scritto, non cambierei nulla perché il nostro mondo nel suo essere incerto (cioè senza certezze) è quello dove non possiamo rinunciare all’ ambizione della convivenza alla quale partecipiamo anche quando non vogliamo… perchè rimane l’unica strada. La convivenza non si può disimparare ed è come accade quando respiriamo ma, a volte, non ne abbiamo consapevolezza e non sappiamo che lo stiamo facendo. Per questo motivo, Il ruolo della cultura è fondamentale. Non c'è un metodo per convivere ma c'è una cultura che si può riconoscere nello sforzo di vivere e possiamo ampliarla. Quel che sta accadendo a Gaza è terribile e, con ancora più forza, posso solo continuare a percorrere questa strada. Non so se dopo tutte queste tragedie la convivenza avrà un’efficacia - ci credo poco - ma non posso impegnarmi in un’altra direzione” ha precisato Segre.

Inoltre, per convivere dobbiamo sapere chi siamo. Per Segre le identità, antropologicamente, sono inesistenti ma, in qualità di scienziato politico, deve muoversi nello spazio nel quale gli uomini si sentono di essere ed è da lì che occorre partire. Nel libro, per questo motivo, non è indicato un unico tipo di identità ma sono tratteggiati gli aspetti universali. Nessuno di noi è un'unica cosa, abbiamo tante identità e nessuna di queste identità è prioritaria sulle altre. Abbiamo identità cangianti un'identità cangianti nello spazio e del tempo ma anche nella nostra consapevolezza e volontà di performare alcune identità. Inoltre sono relazionali e dipendono dal rapporto con l'altro. Se sono su un'isola deserta non ho bisogno di identità perché svaniscono. Ma il mondo non è un'isola deserta e la relazione con l'altro è inevitabile perché all'interno di questo rapporto le identità vengono o meno riconosciute o affibiate come lo è stato per molti ebrei con la violenza. tutto questo si riassume nel fatto che le identità sono relazionali.

Come ha sottolineato Nicoletta Fasano, il primo passo è il riconoscimento dell’identità come sacralità laica dell’altro.

“Ha una risonanza la sacralità perché - ha proseguito Segre - fondamentale per la costruzione della cultura della convivenza. Non possiamo che partire dalla considerazione che tutte le identità, anche quelle che odiamo, hanno dignità in quanto esistenti. Solo attraverso il principio del riconoscimento dell'esistenza di un'identità si può costruire la convivenza: anche nel momento in cui odio un'identità, le assegno un’ esistenza. Si tratta di un passaggio che parte da noi stessi e anche tutte le nostre identità hanno dignità. Se riesco a riconoscere e radicare me stesso per il fatto che sono, ecco che la mia capacità di riconoscere l'altro aumenta. Ciò ci consente di fare un passo nel mondo ma se non ho riconoscimento di me stesso non posso riconoscere l'altro. Infatti, insieme all’identità, infatti, c'è sempre anche la reciprocità. La convivenza è anche la comprensione, il prendere atto che da solo non ce la faccio a fare tutto. L'uomo è un animale sociale perché è costretto dalla socialità che è una necessità ed è per questo che siamo portati alla convivenza. Icaro Icaro muore per superare un limite umano ma anche perché abbandona un progetto condiviso. Muore perché decide di volare da solo”.

 

Giovanna Cravanzola


Stampa   Email