VITA MIA

Lunedì 8 gennaio Dacia Maraini ha presentatoVita mia: Giappone, 1943. Memorie di una bambina italiana in un campo di prigionia” (Rizzoli). Ne ha discusso con Nicoletta Fasano, direttrice dell’Israt. L’incontro è stato organizzato da Polo Cittattiva per l’Astigiano e l’Albese – I.C. di San Damiano, Museo Arti e Mestieri di un tempo e Comune di Cisterna d’ Asti con Fra Production Spa, Israt, Casa della Memoria della Resistenza e della Deportazione di Vinchio, Associazione

Franco Casetta”, Gazzetta d’Asti, Libreria"Il Pellicano" e Aimc di Asti. Un dialogo che ha accompagnato i presenti in un viaggio nella storia, quella che, purtroppo, molti italiani preferiscono non ricordare o ascoltare.

Dacia Maraini è autrice di romanzi, racconti, opere teatrali, poesie e saggi, editi da Rizzoli e disponibili in BUR, tradotti in oltre venticinque Paesi. Nel 1990 ha vinto il Premio Campiello con La lunga vita di Marianna Ucrìa e nel 1999 il Premio Strega con Buio. Il suo ultimo libro è Una rivoluzione gentile (Rizzoli 2021).

Nicoletta Fasano è storica, ricercatrice e direttrice dell’ Israt.

Nicoletta Fasano ha evidenziato la connessione delle foto di copertina del libro. Un prima, con la piccola Dacia tra le macerie di Tokyo e un dopo, con la stessa bambina con un’espressione diversa. Come ha scritto l’autrice, le ferite della pace durano meno rispetto a quelle della guerra. Si tratta di un libro intimo, profondo, il più difficile da scrivere perchè contiene la sofferenza del testimone che spesso non viene compresa.

La famiglia Maraini – che si trova in Giappone come altri italiani dopo l’ 8 settembre ‘43 – rifiuta di giurare fedeltà alla Repubblica di Salò. Tutti i componenti sono arrestati con l’accusa di tradimento e condannati alla detenzione in un campo di concentramento giapponese. Così padre, madre e tre figlie piccole, vengono reclusi. Tra loro c’è la piccola Dacia che ha solo 7 anni ed è la sorella maggiore. Rimangono in quel campo per due anni. In quel momento, in Giappone sono presenti 3000 italiani ma solo 18 si oppongono al fascismo mettendo a rischio la propria vita come atto di resistenza civile. È un libro doloroso ma le guerre di oggi mi hanno convinto a scrivere. Le idee sono astratte ed è importante per i sopravvissuti raccontare. La foto di copertina mi ritrae davanti alle rovine di Tokio dove siamo rimasti ancora per un anno perché non erano disponibili navi per il viaggio in Italia. Quando siamo tornati, c’era voglia di dimenticare anche da parte di chi ci stava intorno. Dicevano che, in fondo, non dovevamo essere stati così male. In effetti, eravamo stati curati dai medici americani che ci avevano ridato la gioia di vivere. Ma eravamo devastati, malati, fragili per mancanza di vitamine, proteine, medicine. Io avevo il cuore grande come una melanzana. Per questo, nonostante le difficoltà, credo che sia importante testimoniare. Mia madre aveva chiesto che ci lasciassero presso persone fidate ma le fu proposto solo un orfanotrofio che, successivamente, venne bombardato. Allora, meglio restare tutti insieme. Ogni giorno le guardie ci dicevano che, se avessero vinto la guerra, ci avrebbero tagliato la gola. Noi non sapevamo cosa sarebbe successo. Per me era terribile, oltre la fame, i parassiti, poi bombe, terremoti… Ogni sera mi stupivo di essere ancora viva. Si può morire dentro anche se non si muore fuori. I miei genitori mi hanno sostenuto. Mia madre mi ha insegnato che bisogna resistere e mi è servito anche dopo perché ho vissuto tanti momenti difficili. La serenità di oggi mi viene da mia madre che era sempre positiva” ha detto la scrittrice.

I Maraini erano una famiglia colta e multietnica. La nonna materna era cilena, figlia di ambasciatore a Parigi. Il nonno materno era siciliano. Si erano conosciuti alla Scala di Milano dove studiavano canto. La nonna avrebbe voluto coltivare la sua passione ma, dopo il matrimonio, le fu proibito perché sarebbe stato uno scandalo per la famiglia. Il nonno paterno era un italiano di origine luganese. La nonna, invece, era una scrittrice inglese. L’unica cosa che univa le origini diverse era un pensiero liberale.

Come ha ricordato Fasano, durante la prigionia, Fosco Maraini aveva definito i prigionieri scienziati della fame”: si doveva raccattare ogni cosa, viva o morta, per poterla consumare come cibo.

Ogni giorno i prigionieri ricevevano un pugnetto di fame ma noi bambini non ne avevamo diritto. Gli altri prigionieri erano costretti a darci mezzo cucchiaio della loro porzione ed era un grande sacrificio. I miei genitori proposero di darci parte della loro razione ma fu loro impedito. E il cibo diventava per tutti sempre di meno. Allora, nel cortile, se passava un topo, un serpente, una rana… veniva catturata, bollita e mangiata perché la fame era grande. Da allora il cibo è sacro per me. Anche oggi non lo spreco, lo riutilizzo. L’idea di buttarlo per me è impossibile. Al ritorno, di nascosto, mettevo pane, zucchero...da parte in mezzo ai cassetti per paura di rimanere senza” ha proseguito l’autrice.

Bimbe affamate di cibo, ma sostenute dall’amore dei genitori che si prodigano in ogni modo per offrire loro anche nutrimento per l’anima in questo luogo terribile E Nicoletta Fasano ha ricordato l’importanza della parola come strumento di vita.

Il campo era anche scuola. Io avrei dovuto iniziare a frequentarla. Allora mia padre, sotto un ciliegio che non faceva frutti, mi parlava di filosofia e mi insegnava la matematica cantando. Mio padre e mia madre ci facevano scuola. Pinocchio è stato una compagnia importante come Alice nel paese delle meraviglia. Mi insegnavano l’italiano ma io sapevo a meraviglia il dialetto di Kyoto perché ero arrivata in Giappone quando avevo un anno. Però, parlare dell’Italia e delle sue storie, ci distraeva e ci ricordava che la conoscenza è la cosa più importante di tutte. Avevamo anche quella fame mentale. Il nostro cervello non era a proprio agio. Pensava solo a come raccattare qualcosa da mangiare. Oggi si parla di povertà ma la fame è un'altra cosa. L'ho ritrovata in Africa nera dove ho visto anche un bambino morire di fame. Ero lì con Pasolini e Moravia e ho sentito una vicinanza profonda con quel bimbo. Oggi credo di capire, mi sento vicina a chi è oggi è in guerra perché so e ricordo cosa vuol dire viverla” ha detto la Maraini.

 

Nel libro emerge, per questo ed altri motivi, un ritratto vivido dei genitori come persone dolcissime, indebolite dalle privazioni ma con un animo indomito e mille risorse da utilizzare nei momenti più impensati.

Fosco conosceva 9 lingue e riusciva a passare da una all’altra senza fatica. Con mamma avevano conservato un mozzicone di matita che la mamma utilizzava per scrivere un diario mentre mio padre per scrivere delle poesie che nascondeva dentro alla pancia dell’orsacchiotto di mia sorella. Quest’ultimo era arrivato con noi nel campo perché era stato impossibile sottrarlo alla bambina. Grazie a questo nascondiglio, le poesie si sono salvate e sono arrivate alla fine della guerra”.

La perfidia delle guardie, aveva privato di tutto i prigionieri solo per vessare e umiliare. Ad esempio, era vietato appoggiarsi ai muri anche quando si era distrutti dall’inedia. Non si potevano ricevere lettere da casa.

Arrivavano, ce le mettevano in bella mostra ma non ce le davano e, dopo giorni, le stracciavano davanti ai nostri occhi disperati. Un sadismo incredibile. Quando si sono accorti che andavamo a rovistare nell’immondizia, hanno iniziato a buttarci sopra i liquami del pozzo nero. Però ho ben netta la distinzione tra quelle guardie e il popolo giapponese di cui conservo un magnifico ricordo. Non ci ha mai tradito. Quando riuscivo, scappavo e andavo a lavorare per i contadini che abitavano fuori dal campo. In cambio mi davano qualcosa da mangiare che riportavo al campo. Capivo che erano con noi. Il mondo contadino non ci ha mai denunciato. Un altro caro ricordo è quello della nostra tata giapponese, l’unica persona che era venuta a trovarci. Era stata torturata per farle confessare che eravamo spie ma non lo fece mai. Ancora oggi ho amici giapponesi”.

Un altro interrogativo posto da Fasano è stato rispetto al razzismo dei giapponesi nei confronti degli italiani. Era presente?

Indubbiamente le guardie odiavano gli ebrei invece, per loro, gli italiani reclusi nel campo erano dissidenti e traditori. I fascisti erano d’accordo con loro che consideravano la Repubblica di Salò l’unico governo italiano ufficiale.

Però, il nostro stare nel campo non era stata un’iniziativa giapponese ma fascista e vedere che fascismo sta tornando in Italia mi fa tornare in mente memorie incredibili. Ciò è dovuto a ignoranza grassa in un Paese che non ha fatto i conti con il proprio passato. Anche in Italia c’erano i campi di concentramento, non erano di sterminio ma erano nati per portarci i prigionieri come destinazione finale. Come si fa oggi a non sapere? Non lo sanno perché non lo vogliono sapere e nelle scuole bisognerebbe insegnare di più cos’è stato il fascismo. Nel campo, fin quasi alla fine, c’è stata solidarietà tra i prigionieri. Si divideva tutto e si parlava molto. Verso la fine, però, eravamo tutti così disperati che sono cominciati a circolare rabbia e nervosismo. Però, finita la guerra, è tornata la solidarietà” ha proseguito.

Rispetto alla religiosità, Dacia Maraini, pur essendo laica, ha dichiarato un grande rispetto verso la fede e chi la nutre anche se, per quanto la riguarda, è un sentimento.

Per quanto riguarda la situazione presente ha detto: C’è indifferenza su tutto. Non si vota senza pensare che, per ottenere il voto, molta gente di ha lasciato la pelle. Eppure, oggi solo il 40% degli italiani va a votare. In Italia viviamo un mancato rapporto con la memoria. Si può rivendicare un passato eroico, il superomismo… la destra ha spesso fatto del soldato un eroe ma, nella realtà, spesso ha avuto che fare con la piccineria che di eroico non ha nulla”.

Un incontro, una storia che non è solo quella di una famiglia ma è anche quella del nostro Paese ancora incapace di fare i conti con il proprio passato.

Giovanna Cravanzola


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